Qualche tempo fa sono stato invitato da un Fotoclub a tenere un incontro su questo argomento che, in forma sintetica, propongo alla vostra attenzione.
Scopo dell’incontro è stato offrire, con supporti visivi, spunti di riflessione sulla forza ma anche sull’ambiguità del linguaggio fotografico, poiché le intenzioni dei fotografi o di chi utilizza le immagini, non sempre appaiono chiare ai fruitori.
Nel 1900 lo stato maggiore dell’esercito, in occasione del conflitto anglo-boero, diffondeva immagini di efficienza organizzativa sul ricovero dei feriti inglesi, molto lontane da quelle inviate ai giornale dal fotoreporter Reinhold Thiele che fotografavano stanzoni disadorni con paglia per terra e privi di letti; immagini diverse della stessa realtà. (vedi ph. 01a e 01b)
Superato il filtro della censura militare, solo alcune immagini “ufficiali” potevano comparire sulle pagine dei giornali: erano secretate le foto scomode, come ad esempio le immagini dei morti, dei feriti, delle fucilazioni e quelle che mostravano le vere condizioni dei soldati nelle trincee.
Scelte che avvengono anche nella prima guerra mondiale nonostante l’impiego massiccio di fotocamere, nelle mani degli ufficiali di ogni esercito, pronte a documentare testimonianze visive spesso prive della richiesta luce epica; come anche dopo la metà degli anni venti, dove Mussolini pratica l’autocensura delle immagini che diffondono suoi gesti caricaturali. (vedi ph. 02)
La tecnica fotografica ha conosciuto, ben prima dell’attuale era digitale, l’arte del fotoritocco; tra le varie testimonianze citiamo una foto di Mao Zedong (1958), presente agli scavi archeologici per il recupero delle tombe dei Ming, assieme al sindaco di Pechino Peng Zen (suo antico compagno di rivoluzione) che, caduto poi in disgrazia, scompare dalla stessa foto nel 1966. (vedi ph. 03)
Di per sé la fotografia si presenta come un documento dotato di oggettività intrinseca con una straordinaria capacità di documentazione dei fatti ma dovremmo interrogarci sull’ambiguità del linguaggio fotografico come pure sull’identità e la responsabilità di chi produce e diffonde le immagini per l’impatto pericoloso d’una nostra accettazione e/o indifferenza. Lo stesso Lewis Hine scriveva (1909):
“La fotografia non può che mentire, ma lo ammetterebbe sinceramente se i bugiardi non la costringessero a fingere di essere sincera”.
Se a fine ‘800 con pennellate, collage e sovrapposizioni, venivano creati scatti fantastici e assurdi; oggi sembra che l’importante sia stupire per forma estetica più che per contenuto. Sempre più la fotografia rinnega la vocazione documentaria per affermare le infinite capacità espressive legate all’estro dell’operatore.
”Lungo questa strada quale futuro potrà avere la fotografia?”
“Un futuro di tipo prevalentemente artistico”
Precisando che i veri “creativi” sanno come fare, nel dare forma e contenuto alle loro idee, perché mossi da una progettualità fotografica.
Ancora oggi pochi sanno fare buon uso della tecnica ma preferiscono “giocare” affidando al caso il risultato dei loro tentativi nel produrre qualcosa di fantastico. “Produzione” e “manipolazione” sono due precise possibilità operative, due concetti molto più importanti dell’atto stesso del “fotografare”, sono due strade fondamentali battute da quei fotografi che intendono raccontare la realtà, o da coloro che considerano la fotocamera uno strumento tecnico d’espressione personale.
L’innovazione tecnologica ha raffinato le possibilità del mezzo alimentando l’illusione che chiunque possa plasmare la materia “immagine” poiché con i PC si può fare di tutto, dimenticando che i veri artisti sanno come “addomesticare” i nuovi strumenti per ottimizzare il loro lavoro.
Stiamo assistendo a una crescente interattività con i progetti di realtà virtuale, e l’arte sta diventando sempre più immateriale; l’arte viaggia in rete, come i sogni digitali…
In Italia Gianni Berengo Gardin da tempo “timbra” il retro delle sue stampe ai sali d’argento per garantire che sono state ricavate da un negativo non modificato o corretto, perché desidera che chi guarda le sue foto veda esattamente quello che lui ha visto nella realtà “vera fotografia”, con tutto il “bello” e il “brutto” che gli si è posto davanti.
Articolo di Giancarlo Torresani pubblicato sul sito del Circolo Fotografico Scledense https://circolofotografico.wordpress.com/2016/09/02/fotografia-un-linguaggio-ambiguo/